“C’era una volta l’URSS. Storia di un amore” Intervista di Russisti Anonimi a Laura Salmon
Il 13 dicembre 2024 nella casella di posta di Russisti Anonimi arriva una mail che non ci aspettavamo di ricevere. A scrivere è Francesca Cannarile, dell’ufficio stampa di Sandro Teti Editore, casa editrice specializzata nella pubblicazione testi legati ai paesi dell’ex Unione Sovietica, e con cui noi Russiste abbiamo collaborato spesso in passato.
Francesca ci scrive per segnalarci una novità editoriale che hanno in programma da tempo: un libro di Laura Salmon, “C’era una volta L’URSS. Storia di un amore”, un “romanzo autobiografico dove le personali vicende dell’autrice in Unione Sovietica si intrecciano con gli eventi storico-politici dell’epoca creando una fusione di sentimenti autentici e sapienza che solo la narrativa può consentire.” Francesca ci spiega che Laura Salmon è “una delle più importanti traduttrici dal russo, autrice di saggi sulla traduzione e professoressa di Lingua e Letteratura russa presso l’Università di Genova“, senza sapere che noi sappiamo perfettamente di chi si tratti. Ai tempi dell’università avevamo studiato proprio sui suoi testi! Neanche a dirlo, la notizia ci ha da subito entusiasmate, tanto più che avremmo avuto la possibilità di leggere il testo in anteprima nazionale.

Da lì inizia uno scambio di mail, redatte a quattro mani e a due cervelli, in cui, coordinandoci con la redazione, tentiamo di sviluppare una strategia comunicativa per promuovere la nuova uscita, che ci aspettavamo ci stupisse, ma non che ci toccasse così nel profondo. Così, a distanza di qualche mese, in una fredda giornata di febbraio, ci ritroviamo su treno per Genova, in direzione della casa della professoressa, per farle un’intervista da condividere sui nostri profili.
Arrivate sul posto, montiamo il set, tiriamo fuori le domande che ci eravamo preparate durante la notte, negli unici istanti liberi delle nostre giornate, facciamo partire microfoni, azioniamo due videocamere e una registrazione audio… e menomale direi. Dovete sapere infatti che proprio quel giorno la tecnologia decide di non collaborare e, delle circa due ore di intervista, si sono salvati in formato video, solamente una quarantina di minuti.
Per mesi abbiamo provato a risolvere il problema, affidandoci a videomaker esterni al progetto e un po’ alla folle speranza che un giorno, quelle inquadrature sbagliate, si sarebbero sistemate da sole. Le inquadrature, come immaginerete, non si sono però sistemate da sole e, dopo mesi di stallo, abbiamo capito che la cosa migliore da fare, fosse quella di pubblicare l’intervista completa, in formato testuale, sul nostro sito che, come vedete, siamo riuscite ad ultimare.
Nell’attesa di far uscire l’intervista in formato video però (no, quell’obiettivo non lo abbiamo ancora messo da parte) adesso voi mettetevi comodi, perché oggi ripercorriamo la storia di un amore grande, quell’amore che accomuna noi Russiste, voi Russisti e Laura Salmon. Sappiamo che le sue parole vi toccheranno in punti che non sapevate nemmeno di avere scoperti, vi commuoveranno e magari vi faranno indignare. Ecco tutto quello che ci siamo dette il 16 gennaio 2024, quando l’autore ci ha aperto le porte di casa sua e ci accoglie nel suo studio, tra libri russi, quadri di celebri romanzieri, matrёški e samovar.


L’intervista
Buongiorno Professoressa, iniziamo con le domande di rito: quale genere letterario meglio descrive “C’era una volta l’URSS?
Hanno usato sia la parola romanzo sia memoir. Mi sembra che memoir abbia quel pizzico di vago che rende più prudente la definizione. Perché in effetti ci sono delle tecniche che non sono quelle del romanzo o, perlomeno, del romanzo classico. Memoir mi sembra una definizione particolarmente azzeccata, per il fatto che c’è una forte componente autobiografica. Il sottotitolo “Storia di un amore” è importantissimo. Vuole sottolineare come questa esperienza di mondo, talmente vicina da averla conosciuta io stessa così bene, sembra ora davvero lontana, come il mondo delle fiabe.
Tale è stato lo sconvolgimento psicologico, drastico, da un certo punto di vista, apocalittico lo definirei, del crollo dell’Urss, che, come succede sempre con i grandi lutti, tu metti un prima e un dopo, ma perdi la sensazione del tempo trascorso. È come quando ti portano via una parte importante della tua vita: non hai più la percezione del vicino e del lontano, ma è come se andassi in una dimensione quasi del mito, senza spazio e senza tempo. È veramente un titolo su cui ho meditato, insomma, e alla fine è stato deciso così. Nella traduzione russa, che sarà finita a breve, il titolo sarà un po’ diverso, cioè non avrà proprio la formula del once upon a time, del жили были (žili byli), ma del really really. Sarà Был когда-то Советский Союз: История одной любви (byl kogda-to Sovetskij Sojuz – Istorija odnoj ljubvi).
Noi vorremmo iniziare questa conversazione, cercando di rievocare le origini del suo rapporto con l’Unione Sovietica in generale e con la lingua russa nello specifico. Lei si definisce innamorata della lingua russa?
La Russia è stata non solo l’oggetto dei miei studi, è stata la mia vita. Quindi è il mio grande amore. Con tutto quello che comprende: le persone, i luoghi, la letteratura, la cultura, con predilezioni ovviamente individuali, perché per esempio non sono un’esperta di musica, ognuno ha le sue. Però, se dovessi mettere una colonna sonora alla mia vita sceglierei quasi sempre Vysotskij, perché la mia, comunque, è la generazione dei cantautori e della musica in un certo senso rock, che è quella cadenza ritmica con cui noi siamo cresciuti da adolescenti.
Nel suo memoir lei racconta dell’inizio di questo amore e io vorrei leggere una citazione:
«Prima lingua?» mi avevano chiesto allo sportello.
«Tedesco» avevo risposto malvolentieri.
«Seconda lingua?».
«Russo» avevo detto con risoluta incoscienza.
A novembre, prima che scadesse la convalida dei piani di studi, le idee erano ormai del tutto chiare ed ero tornata allo sportello per formalizzare un duplice “cambio lingua”:
«Prima lingua: russo. Seconda: polacco. Terza: tedesco».
«Guardi che, se mette il tedesco terza lingua, non lo potrà insegnare» mi aveva suggerito, provvida, la segreteria.
«Allora», avevo convenuto a malincuore, «russo prima, tedesco seconda, polacco terza».
E così il tedesco era finito formalmente al secondo posto, sebbene avessi ormai deciso di diventare una “slavista”, termine che suonava autorevole e misterioso.
Ho scelto questa citazione personalmente perché anche io sono stata germanista, e anche per me il tedesco è scivolato in secondo piano.
Se posso dire, l’epiteto nobilitante di germanista proprio non me lo posso riconoscere. In realtà ho persino insegnato un pochino di tedesco nelle scuole private, perché quando era arrivato mio marito, extracomunitario, che non poteva lavorare, non avevo scelta, dovevo accettare qualsiasi tipo di lavoro. Ho un buon rapporto con la lingua tedesca, che ha degli aspetti veramente strepitosi, a parte la difficoltà immane che mi fa dire che il russo in confronto, per me, è stata una passeggiata.
Questo riferimento al tedesco ci dà lo spunto per riflettere su un tema interessante. Il tedesco è una lingua strettamente europea, una lingua che parlano in molti, che studiano in molti. Il russo è una lingua che ha una storia, anche didattica, diversa in Italia. La domanda che vorremmo farle è: com’era la situazione attorno a lei nei confronti del russo? Come veniva percepito quando lei ha iniziato a studiarlo all’università? Cosa le dicevano i suoi amici, i suoi parenti?
Allora era abbastanza ambivalente la cosa. L’associazione “Russia > comunismo” o “Russia > bandiera rossa”, faceva sì che ci fossero simpatie da parte della sinistra di allora, paragonabili però all’antipatia di tutti gli altri, che comunque rimanevano la maggioranza. Tuttavia, a differenza di quanto accade oggi non c’era russofobia. Questa è una risposta importante: non c’era russofobia! Cioè la Russia era vista con scetticismo, forse paura, forse ammirazione, ma non c’era un’ostilità proprio aggressiva, come oggi da parte di chi si è auto-assoggettato a questa propaganda, che hanno mantenuto i giornali mainstream. Tornando appunto a quell’epoca, quindi, da un lato era quasi un po’ una sciccheria studiare il russo. Era esotico, un esotico che poteva essere attrattivo. Era una carta che potevi usare, come chi sceglie come vestirsi per attrarre l’attenzione. Certo che non studi il russo per attrarre l’attenzione, però l’effetto era esattamente quello: “Lei è quella che studia il russo”!, “Tu che studi il russo!”.
Sul fatto dell’esotico sono completamente d’accordo, perché è quello che ha guidato anche la mia scelta. Volevo studiare una lingua esotica.
Sì. Però il russo, in realtà, è una lingua indoeuropea, come il tedesco. Tra italiano, tedesco e russo c’è una familiarità così ampia da non poter davvero parlare di qualcosa di esotico. Però all’epoca forse prevaleva questa curiosità, anche se è difficile usare questa parola. Perché intorno a me ad esempio, e questo lo posso dire senza interruzioni, da quando io ho imparato la prima parola di russo e poi ho cominciato ad andare in Unione Sovietica, non c’è mai stato nessuno, neanche i miei parenti più stretti, che abbia voluto sapere qualcosa da me sulla Russia. E perché? Perché loro sanno tutto. La cosa grave è che quello che sanno tende non solo ad essere diverso dalla realtà, ma esattamente il contrario. Quando, non so, faccio per dire, quando tirano fuori qualche difetto ai russi (non è che non ne abbiano) non si rendono conto, che il difetto che stanno appioppando loro, è esattamente il contrario di quello che credono le persone qui.
Per esempio l’idea, soprattutto in epoca sovietica, c’era l’idea che i russi sono seri e non sorridono mai. Poi tu arrivi lì e scopri il paese più festaiolo, più divertente, più umoristico del mondo. Gli stereotipi a volte sono una specie di cristallizzazione di un’idea che magari corrisponde al vero, tipo gli italiani amano la pasta asciutta, no? Qualcosa di vero c’è. Io personalmente odio la pasta asciutta, però capisco che è uno stereotipo che regge, mentre gli stereotipi sui russi, poggiati su una totale ignoranza e presunzione di giudizio, sono incredibilmente simili all’opposto di quello che io vedevo e vedo. E di questo, tendenzialmente, ai miei interlocutori, non è mai importato nulla. Nel libro credo che ritorni questa cosa: nessuno voleva sapere niente, perché già sapevano tutto, come oggi, no?
Ho la percezione che tanto più una cosa è lontana, tanto più il minimo che sappiamo ci basta.
Vero. Però questa importante osservazione mi fa venire in mente una cosa che non posso argomentare scientificamente, però è una convinzione viscerale profonda. La Russia non è così lontana come sembra, come, per esempio, può esserlo, ad esempio, la Cina. Gli italiani non hanno un’opinione sulla Cina così radicata come sulla Russia, nonostante anche quella sia una civiltà importantissima, una potenza geopolitica, eccetera. Sulla Russia sanno tutto. È questo che è incredibile, perché la Russia viene vissuta come qualcosa di noto, sebbene non lo sia affatto.
Forse il difetto di questo ragionamento italiano è applicare l’esotico ad un paese che da sempre ha questa forte faccia “un po’ di là, un po’ di qua”, l’essere un po’ europeo e un po’ no.
Sì. C’è questo. La Russia è un paese che, copre 11 fusi orari, quindi dentro c’è tutto. C’è l’Europa, c’è l’Asia, c’è il settentrione estremo, c’è l’Artico e c’è il Mar Nero, e quindi chiaramente questa è una situazione un po’ eccezionale. Però insisto sul fatto che ai miei tempi c’era la cortina di ferro e questo lo rendeva un paese “esotico”. Cioè cerchiamo di capire: andare in URSS, come spiego nel libro, era tremendamente difficile e spaventosamente costoso. Costoso proprio in termini di denaro. Curiosamente è tornata esattamente così la cosa.
Una cosa che ci interessa molto è capire che tipo di opportunità c’erano per poter andare in URSS quando ha iniziato lei a studiare?
Allora c’erano pochissime borse di studio. Essenzialmente quando mi sono iscritta io al secondo anno abbiamo cominciato a interessarci e abbiamo scoperto che c’erano nove posti in Italia, per tutti gli studenti italiani. Nove borse ministeriali, grazie a cui si riceveva posto in casa dello studente, l’accesso gratuito all’università e si poteva vivere lì nove mesi. Per lo più queste borse di studio erano a Mosca. Io non ho mai fatto domanda per questa borsa di studio, perché prima di tutto c’avevo il fidanzato e insomma capivo che nove mesi in Unione Sovietica avrebbero implicato troppe perdite sul piano personale. Ma non credo neanche che fosse quello. Non escludo che fosse il mio odio personale per gli alberghi e le case dello studente che per me è la stessa cosa. Non è una questione di quante stelle sono, è la questione di non vivere in un ambiente che io ritengo naturale, che è quello comunque della casa con il tuo bagno, la tua cucina e le tue cose. Per esempio, dover vivere in un ambiente dove non ho i miei oggetti, i miei libri. Non so perché, ho sempre patito molto questa cosa. Poi viaggiando tanto, come si capisce, ho passato veramente troppo tempo negli alberghi.
L’altra possibilità era iniziare pagandosi un paio di viaggi a carissimo prezzo, cosa che io ho fatto, me ne sono pagati, direi, tre o quattro, e poi offrirsi per andare a lavorare coi viaggi. E una volta fatto quello, io ho passato almeno sei o sette anni, forse a livello di anno solare, più giorni in URSS che in Italia. Poi quando, insomma, mi sono sposata, gli ultimi quattro anni di vita dell’URSS li ho passati praticamente, sempre lì, se riuscivo.
Quali sono state le difficoltà di organizzare un viaggio in Urss?
La difficoltà era solo economica. In URSS si poteva andare come turisti senza difficoltà e in quel caso il pacchetto offerto era dal punto di vista economico vantaggioso, perché comunque se ci pensa, si andava oltre la cortina e si stava in alberghi molto chic per gli standard internazionali, non solo sovietici, e si aveva tutto il pacchetto turistico. I viaggi studio erano molto più spartani e quindi si andava in questi studenti, oppure anche in alberghi, ma meno quotati. Però si stava per periodi lunghi; i viaggi di studio erano come minimo 20 giorni e quelli li organizzava solo l’associazione Italia-URSS che noi frequentavamo quotidianamente per un verso o per l’altro, perché era il tramite ufficiale per raggiungere l’Urss.
Lei è partita con l’associazione Italia-Urss Genova?
Sì, che era tra l’altro fisicamente a due passi, dalla sede della facoltà di lettere dove all’epoca ero iscritta ai corsi di lingua. Ma proprio due passi, nel senso che finivamo le lezioni alle sette, mangiavano un panino e alle otto di sera si andava a fare il corso serale all’Italia-Urss. Che fatica!
Eh sì, noi capiamo perfettamente.
È qui che si vede l’amore. La lezione di russo era come uscire col mio fidanzato.
Sì, sì, su questo siamo d’accordo. Questo è un tema comune, di cui parliamo molto spesso tra di noi.
Qualcosa di davvero molto simile.
Ok, ci piace l’idea di continuare a parlare sempre del suo primo viaggio in Unione Sovietica e soprattutto di come lei si sia preparata e di come si è sentita. Lei nel libro scrive: “ero partita in modo demenziale”. E questo aggettivo ci ha fatto molto sorridere e ci siamo chieste se sia un aggettivo che ha utilizzato la Laura Salmon di oggi o già al tempo.
Diciamo che al ritorno avevo già capito tutto dal punto di vista della demenzialità. Però poi ho perseverato. Ho continuato per parecchio tempo. Da un lato sì, avrei voluto essere come loro, dall’altro non ero decisamente capace. Tutto questo ha richiesto qualche decennio di adeguamento totale, nonostante all’epoca in URSS nessuno credesse più che io fossi occidentale. Dovevo tirar fuori il passaporto, la carta d’identità perché non ci credevano che io fossi nata in Italia. Questo mi lusingava, sebbene la mia meta era quella di essere proprio scambiata per una sovietica sovietica. Le mie amiche ogni tanto mi dicevano: “Sai dov’è che ti tradisci? È per come cammini,perché non hai un’andatura femminile.” Con il tempo ho rinunciato a modificare alcuni miei atteggiamenti che ritengo essere proprio naturali e viscerali. Ci sono ad esempio due cose in cui il mio processo di russificazione, che ritengo estremamente sofisticato, si è invece rivelato irrimediabilmente fallimentare. Prima cosa: il cibo. Per me, ad esempio il semolino è salato, è gnocchi alla romana, mentre in Russia la kaša col semolino è con lo zucchero. Questo per me, per esempio, è insuperabile. Posso mangiarla per carità, però è come se mangiassi una cosa strana.
La seconda cosa è la musica. Io sono cresciuta con la musica pop-rock di stampo anglosassone. Pensate alla musica araba, se sentite quel ritmo arabo voi vi potete abituare, lo potete sentire quotidianamente, vi potete innamorare, studiarlo. Ma “casa” è un altro ritmo. E quindi il modo di mangiare, di sentire musica e di guardare le persone è quello in cui io tenderei a tradire una natura un po’ specifica. Però, ci tengo a sottolineare una caratteristica importante, ovvero la capacità di accettare dei russi la diversità non ha confronto. Il diverso in Russia è cosa buona. La diversità non è un problema, è positiva, perché i russi sono culturalmente curiosi, affettivamente curiosi e capaci sempre di rendere la diversità un punto di crescita. E nel libro io spesso mi soffermo su questo. La gente da noi non era interessata a considerare le opinioni altrui. In Russia senza opinioni altrui non vivono. Anzi, se non c’è qualcuno con cui litigare, la gente litiga con se stessa. Litiga nel senso che discute, si oppone.
Suo marito è russo e noi ci chiedevamo: ci sono stati magari dei momenti in cui la differenza culturale ha creato delle incomprensioni, degli allontanamenti, soprattutto magari all’inizio, quando lei iniziava a frequentare la Russia?
Come spiego dettagliatamente nel libro, mio marito è ebreo, un ebreo russo; io sono un’ebrea italiana e questa cosa ha creato una considerevole marca unitaria dal punto di vista macro culturale, sebbene nessuno di noi fosse religioso, ma comunque molto attaccati alla cultura ebraica, ad alcune tradizioni e ad un antifascismo radicale. Dall’altro lato c’erano certamente i problemi di incomprensione che ci sono sempre tra marito e moglie e direi che quelli prescindono un pochino dalle culture. A livellareci sul piano culturale c’era sicuramente il fatto che io stessi cercando di russificarmi. Vi faccio un esempio raccontandovi la dinamica della somministrazione del cibo nelle famiglie russe. Ho osservato e acquisito un comportamento che tutt’oggi in Russia è inequivocabilmente accettato da tutti, donne e uomini. Quando si mangia è la donna che кормит (kòrmit) l’uomo. Anche se l’uomo fa da mangiare, però poi è la donna che porge il cibo, che si occupa in generale della cucina. L’uomo naturalmente può fare la spesa, può fare tante cose, però tendenzialmente è la donna che si occupa di certi elementi di comfort della vita familiare, della casa.
Questo non corrispondeva alla mia esperienza, essendo io cresciuta in una famiglia già molto emancipata, perché mia mamma lavorava e mio padre concorreva in modo paritario alle faccende di casa. Io oggi sto attraversando un ripensamento profondo e penso che in realtà, così non possa funzionare. I compiti vanno divisi. Venendo da un ambiente estremamente femminista e avendo fatte mie certe battaglie, mi sono molto ricreduta in generale nell’arco dei decenni. E oggi comincio a pensare che dietro una certa divisione dei compiti ci sia qualcosa di socialmente solido. Non ho ancora un’idea chiara, però per farvi capire meglio: quanto mi irritava e mi ha sempre irritato moltissimo l’espressione russa “sii donna”, “будь женщина” (bud’ ženščina) o “sii uomo”, “будь мужчина” (bud’ mužčina). Si parlava di “настоящая женщина и настоящий мужчина”, “vera donna e vero uomo” e questa cosa mi aveva sempre irritato. Adesso lo so. Perché? Perché c’è un momento in cui ci sono dei pericoli e capisco che abbia senso che un uomo protegga la sua famiglia dall’esterno, come una donna la protegge dall’interno. Questo è un punto su cui non ho certezze, ma sto riflettendo molto approfonditamente. E a ritroso capisco perché mio marito fosse deluso che io non fossi come la mamma. Non so se ho risposto in parte alla sua domanda.
Adesso voglio semplificare estremamente questo discorso. Le voglio chiedere anche un po’ giocosamente se le è mai capitato di pensare: “Ma guarda che russo!”, e se ci sia mai stata un’incomprensione proprio da dire “Eh fa così perché russo!”?
Direi che sì, mi è capitato, però dalla posizione opposta, di dire ‘quanto sono inadeguata, e quanto ancora devo adeguarmi’. Parlo ad esempio, e nel libro in modo stilizzato si ritrova, della totale mancanza di romanticismo degli uomini russi, che è da intendere diversamente rispetto a quello degli uomini italiani. Dal lato loro ad esempio, ci sono gli atti dovuti: vengo all’aeroporto e ti porto i fiori. Quello non è romanticismo, è un atto eseguito da tutti. Oppure gli auguri per l’otto marzo, te li fanno tutti, non è romantico. Dall’altro invece ci sono le aspettative nostre, un po’ hollywoodiane diciamo, in cui ti aspetti dei comportamenti che no, un uomo russo proprio non fa. Nella nostra esperienza italiana siamo abituate a sentirci raccontare qualche bella storiella, per esempio dal ragazzo, dal corteggiatore, ammesso che esistano ancora. I russi tendono a non mentire e quando ci provano non ci riescono, non ci riescono proprio, mentre gli italiani sono maestri. Se un italiano mi fa qualche complimento, chiaramente mentendo, sono contentissima, perché lo sanno fare così bene! I russi no. I russi non sono proprio capaci perché sono talmente schietti e talmente privi di ipocrisia. Forse è una caratteristica trionfante della società russa: la totale assenza di ipocrisia. Quindi un russo può non dirti una cosa sgradevole, può tenertela nascosta, ma non ti dice mai quello che non pensa con convinzione.
Molto interessante questa osservazione sul carattere russo e sulla loro schiettezza. A proposito di questo, nel libro, per raccontare questo carattere russo, cita spesso il concetto di umorismo. Potrebbe spiegarci cosa intende?
Sì, ma prima voglio però rettificare una cosa. Partiamo dal presupposto che, parlando di caratteri non si può davvero generalizzare. Ci sono persone schiette, persone timidissime in tutti i posti al mondo. Diciamo che dal punto di vista così macrosociale, in Russia c’è meno ipocrisia. L’unica cosa, un po’ come ho detto nel libro, su cui ho generalizzato, perché è stato imponente l’impatto di questa scoperta, era in epoca sovietica la dignità estrema di tutti.
C’è un’enorme dignità delle persone. È tremendamente difficile spiegarlo. Forse il libro è proprio la risposta a questo. Come spiegare che cos’era questa dignità? C’erano persone che avevano un modo di comportarsi che non aveva bisogno di nessuna stranezza, perché era talmente dignitoso in tutto. E questo è davvero scomparso col crollo dell’URSS. Di colpo persone che ammiravi profondamente, persone di cui conoscevi nome e cognome, crollavano al punto da farti pena. Una cosa che invece, si è mantenuta intonsa, perché probabilmente è intrinseca alla cultura e alla letteratura russa, nel modo più profondo possibile, è quello che io definisco umorismo, in senso pirandelliano.
Chiedo scusa se adesso appesantiamo un pochino il discorso con una piccola osservazione professorale, ma Pirandello aveva insistito sul fatto che umorismo e comicità sono due fenomeni opposti. Quindi certo che i russi hanno anche la comicità, hanno i talk-show, insomma alla televisione potete trovare cose stupide a piacere, però quello che differenzia il rapporto con il riso in Russia rispetto a noi, è che è sempre riso tra le lacrime, è sempre umorismo come lo descrive Pirandello, cioè associato a una profonda empatia e solidarietà con gli altri. Non si deride il difetto di qualcuno. Certo che ci sono le barzellette stupide anche in Russia, ma quello che sorprende è la quantità impressionante di persone che sanno ridere del proprio dolore, che sanno ridere della condizione umana; non dei tuoi difetti, ma della miseria umana se vogliamo. Questa è una cosa che davvero sconvolge a partire dalla letteratura russa, direi quasi senza eccezione nei grandi classici, in cui la risata non è ‘Quanti carabinieri ci vogliono per cambiare una lampadina?’, che quelli ci sono. Barzellette ce ne sono sempre state dappertutto, ma se prendete le commedie russe, anche sovietiche, sono intrise di questo squisito umorismo, in cui attraverso la derisione anche di qualcuno o di qualcosa, viene deriso un problema esistenziale umano. I russi sorridono, eccome, ma non sorridono tanto come noi. Pensate al sorriso americano: in America le persone mentre ti licenziano ti sorridono, qualsiasi cosa deve essere accompagnata da un sorriso, che insomma non bisogna essere fisiologi per vedere che è un sorriso stereotipato, non è un sorriso spontaneo. I russi tendono a esternare solo sorrisi spontanei. Se uno non ha voglia di sorridere non sorride, mentre noi siamo abituati che dobbiamo fare in certi casi dei sorrisi forzati. Questo non c’entra niente con l’essere divertenti.
Secondo me c’è anche una questione melodica nel modo in cui i russi scherzano.
Intonazionale la chiamerei. Anzi è proprio di solito l’assenza di melodia. Cioè è forse la privazione. Un po’ la lingua italiana è una lingua intonazionale. Basti pensare che noi facciamo le domande senza cambiare la posizione delle parole. In molte lingue hanno bisogno di una struttura sintattica diversa. Il russo ha delle intonazioni pronunciate ma anche lì più sobrie, meno cantilenanti, ed è uno dei motivi per cui noi parlando in russo facciamo molta fatica a adeguarci a questa sobrietà intonazionale. Poi per esprimere le emozioni si usano delle intonazioni che in italiano vanno verso l’alto e in russo vanno verso il basso. Anche nelle domande. Se pensate alla domanda, non so, “А папа дома?” il tono vai giù. Mentre invece noi diciamo “Papà è a casa?” e restiamo in alto.

Nota di pronuncia: qual è l’intonazione naturale “А папа дома?” ?
Ascolta la pronuncia autentica del nostro madrelingua Maxim.
E tu riesci a ripeterlo allo stesso modo?
Ci suggerisce un libro che ci faccia percepire l’umorismo russo?
Dovlatov, che intanto, se qualcuno leggerà il mio libro, un po’ di Dovlatov se lo leggerà, perché viene ipercitato, forse perché io stessa sono entrata molto in profondità in questo autore e nella sua opera,tanto da sentirla davvero mia. Credo che questo umorismo mi appartenga. Vi dicevo che stiamo traducendo il libro anche in russo e pensate che alcuni in Russia, hanno letto alcuni capitoli e senza sapere né chi sono io né niente hanno detto: “Sembra Dovlatov.” Una certa parentela, sì, insomma. Poi mi dicono che obiettivamente è gradito anche in Italia dagli italiani, che è scritto bene. Voi cosa ne pensate?
Di Dovlatov?
Del mio libro naturalmente!
È stato molto piacevole da leggere. Io sto affrontando un blocco del lettore ultimamente molto grande, molto grave anche, ma non l’ho avuto con il suo libro, l’ho letto con passione, la stessa passione che solo un vero Russista può avere. Il suo libro è un regalo per ognuno di noi, e so, perché ce lo hanno già detto i nostri подписчики, essere molto molto apprezzato. A tal proposito le chiedo: come se lo immagina il lettore italiano del suo libro?
Forse se me l’avesse chiesto proprio alla vigilia della pubblicazione sarebbe stata una risposta sensata, perché adesso sono troppo condizionata in realtà dalle tantissime lettere che ho avuto dai lettori. E direi che per lo più si tratta di persone o che hanno conoscenza in ambito russo o che hanno vissuto in Russia o addirittura in Unione Sovietica o che hanno approfondito il tema della letteratura russa o che sono curiose della vita in Russia o che comunque hanno pochi pregiudizi sulla Russia. Poche persone mi hanno mandato ringraziamenti dicendo: “Io della Russia non sapevo niente, lei ha sfatato i miei pregiudizi”.
Secondo lei con che spirito si deve affrontare la lettura del suo memoir?
Un libro così secondo me si deve leggere senza nessuno spirito, si deve leggere e basta. Questo comunque è un memoir, è in soggettiva. Io non voglio convincere nessuno di niente se non forse, come scritto nella quarta di copertina, a essere meno disposto ad avere opinioni drastiche su qualcosa di cui non si sa assolutamente niente.
Quello che ho apprezzato molto del libro è proprio il modo in cui lei narra gli eventi, gli episodi e il modo in cui, come ha detto lei, mette al centro la soggettività, però allo stesso tempo dà modo al lettore di potersi riconoscere, in qualche modo, se è stato in Russia. A noi ad esempio è capitato.
È chiaro che è un libro per chi conosce la Russia. La gente si riconosce come ha mostrato la maggior parte dei feedback, per usare un’altra parola squisitamente italiana, che ho avuto. È un libro, se volete, molto sincero e credo che su questo nessuno possa avere dei dubbi e mi chiedo come potrebbe un lettore pensare che ci contenga una manipolazione cinica da parte mia? È un libro dove espongo molto i miei sentimenti, le mie esperienze personali.
Difficile che qualcuno che ha dei pregiudizi così forti sulla Russia, sia pronto a rivederli, sia in generale sia con il mio libro. Però conosco anche persone che avevano pregiudizi sulla Russia, senza magari saperlo e che hanno comprato il libro. Qualche mio studenti mi ha detto: “L’ha letto la mia mamma, che era così preoccupata che studiassi russo e adesso mi ha detto che ha capito tante cose”.
Per concludere questa intervista io vorrei tornare al titolo del suo memoir “C’era una volta l’URSS”. Siamo abituati a sognare il mondo delle favole, lo sfarzo delle regine, il coraggio dei principi, lo scintillio dei palazzi. Siamo abituati a farlo fin dall’infanzia. Ci hanno insegnato ad aspirare a questo sfarzo. Lo sfarzo però non è qualcosa che riguarda il suo libro e gli eventi narrati nel suo libro. Allora la riflessione è se la scelta del titolo non sia un po’ una rottura con questo sogno.
Gran bella domanda, perché in realtà non ci avevo pensato. Naturalmente questa cosa evidentemente c’è, ma non ci avevo pensato. Forse sì. In questo caso, in modo forse anche istintivo. In realtà la mia scelta era d’istinto. Il ‘c’era una volta tanto tanto tempo fa’ era come una specie rielaborazione ironica su come una cosa così vicina nel tempo, tanto che sono riuscita a viverla per tanti anni, sembri appartenere a un luogo quasi mitico, fuori dal tempo e dallo spazio. Molti ragazzi non sanno neanche quali repubbliche facessero parte dell’Unione Sovietica. È come se tutto questo fosse andato in un dimenticatoio. Però per me forse, ma dico le sto rispondendo per davvero senza averci mai pensato prima, perché nessuno mi aveva fatto questa domanda né me l’ero fatta io, credo che sia una dimensione proprio affettiva. Mi spiego: quando noi entriamo nella dimensione del c’era una volta, è come se potessimo rilassarci un momento, uscire dalla pesantezza della realtà. E quindi “C’era una volta l’URSS” è un po’ il mio modo di elaborare tutto quello che ho vissuto, dopo essermi congedata da questi ricordi per tanti anni, anche perché così nostalgici, in parte dolorosi, e di riflettere su tutto quello che è successo, vista l’incapacità che abbiamo avuto quasi tutti noi di elaborare questo lutto.
Con questo libro ho ricreato una dimensione affettivamente confortante. Ho cercato, di mettere insieme il bene e il male mostrando che in qualche modo sono una cosa solo. Un’utopia realizzata solo per metà, ma per me quella è stata un’esperienza incredibile. Ritengo una fortuna notevolissima di aver conosciuto quella metà di utopia
Un’ultima domanda: ci vuole coraggio per studiare il russo?
No, ci vuole coraggio per fare qualcosa che non rientra in quello che è previsto che tu debba fare.
Grazie Professoressa
Grazie a voi

Conclusione
A distanza di un anno, rileggendo questa intervista con Laura Salmon, sento ancora un nodo alla gola. Le sue parole ci hanno accarezzate come un abbraccio che arriva da lontano, come un dono offerto da un amico che torna da un lungo viaggio. Dentro quelle frasi, così come nelle pagine del suo libro, rimbomba un amore sconfinato per i volti, per i luoghi, per le voci e le risate dolci di un mondo che forse non esiste più, ma che continua a pulsare nelle sue vene.
Leggere C’era una volta l’URSS e ascoltare Laura Salmon è stato come quando devi affrontare qualcosa di difficile, e il cuore trema un po’. Poi qualcuno ti sfiora la mano, ti guarda negli occhi e ti dice piano: “Andiamo, fidati.” E tu lo segui. E in quell’istante tutto cambia. Ti accorgi che hai fatto bene, che la paura si scioglie, che ogni passo diventa leggerezza. Ti ritrovi immerso in un mondo che riconosci senza sapere come, e ogni parola, ogni ricordo, ogni immagine ti accarezza come una promessa mantenuta.
Così è stata per noi Laura Salmon: una guida appassionata, luminosa, capace di coniugare rigore e dolcezza. Ci ha prese per mano con la fermezza di chi conosce la strada, ma anche con la tenerezza di chi ama davvero ciò che insegna. La sua voce, la sua esperienza e la sua dedizione ci hanno ricordato, ancora una volta, quanto sia prezioso avere accanto qualcuno che ti accompagna con pazienza e amore in questo cammino di scoperta, verso la Russia, la sua lingua, la sua anima, la sua infinita cultura. Grazie Laura per averci ricordato ancora una volta perché lo facciamo.

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